James Arnott fu il primo nel 1845 ad usare l'effetto distruttivo del congelamento (criochirurgia) per trattare il cancro (Gage, 1992). Soluzioni saline ghiacciate (-18° e -22°C) furono usate per trattare carcinomi avanzati della mammella e della cervice uterina. I benefici descrivevano minore sofferenza, riduzione delle dimensioni del tumore, miglioramento dell'emorragia e della suppurazione. Ma solo alla fine del 1800 lo sviluppo della ricerca sui gas disciolti, (ossigeno, azoto, idrogeno) permise l'utilizzo di una miscela di questi per trattare i disturbi della pelle. (Gage, 1992). Per le patologie dermatologiche maligne, dove i tessuti target erano più facilmente accessibili e spesso più piccoli, la criochirurgia diventò un trattamento standard (Zacarian et al., 1966). Nel 1950 importanti studi sperimentali dimostrarono la facilità di produrre aree focalizzate di distruzione nel cervello, cuore e fegato.
La criochirurgia moderna , nel 1961 , ricevette una spinta sostanziale con lo sviluppo di un apparato criochirurgico automatizzato che utilizzava l'azoto liquido fatto circolare attraverso una guaina isolata di metallo (Cooper, 1963). Nel 1963 seguirono importanti applicazioni della criochirurgia nel trattamento del morbo di Parkinson, Cooper (1963) suggerì che tumori primari e metastatici del fegato potevano essere trattati con la criochirurgia e che il congelamento poteva produrre un effetto immunizzante. Tra il 1960 e il 1970 furono fatti molti esperimenti di criochirurgia per trattare cellule cancerose, molti dei quali furono fatti su vari modelli animali e in vitro. Le criolesioni formate furono circoscritte in situ e gradualmente riassorbite dal corpo, e entro 6-8 settimane dalla procedura, le criolesioni divennero cicatrici fibrotiche. Gage e Collaboratori (1982) dimostrarono inoltre che i grossi vasi tolleravano il congelamento senza rotture. La criochirurgia iniziò così ad essere usata per i tumori della pelle, dei polmoni, della mammella, della prostata, dell'intestino e della faringe. I primi tentativi di distruggere i tumori del fegato utilizzavano l'applicazione diretta di azoto liquido sulla superficie del fegato (Orpwood, 1981; Bischof et al., 1993).
Durante il 1980 due tecniche avanzate hanno reso la criochirurgia epatica più realizzabile per la pratica generale: sonde vuote isolate e ultrasonografia intraoperativa. L'azoto liquido (-196°C) circolava all'interno di una sonda isolata, producendo temperature sotto lo zero all'interno della sonda e congelando il contorno del tumore con distruzione soltanto del contorno del tessuto normale intorno ad ogni lesione. L'uso della sonda chiusa evita il rischio di embolia, che potrebbe verificarsi con una sonda aperta dove l'azoto liquido e' a contatto diretto con il fegato.
Lo sviluppo delle tecniche con ultrasuoni intraoperatori ha permesso ulteriori e varie applicazioni nella criochirurgia. La difficoltà maggiore dell'utilizzo della criochirurgia per i disturbi epatici maligni fu nel determinare l'esatto volume del tessuto congelato durante il trattamento. La zona di congelamento e l'estensione del solo tessuto danneggiato, in relazione ai margini del tumore, dovevano essere accuratamente definiti per evitare la distruzione totale del tessuto. Inizialmente la criochirurgia fu monitorata tramite termocoppie o elettrodi (sensibili ai cambi di impedenza dei tessuti). Gilbert et al. (1985) dimostrarono in vitro, e in animali, e altri successivamente in una piccola serie di pazienti umani, che l'intera area congelata può essere monitorata facilmente utilizzando una ultrasonografia intraoperatoria in tempo reale. Alla fine degli anni 80, furono sviluppate delle criosonde utilizzando azoto liquido circolante, che producevano una palla di ghiaccio sferica attorno a ogni metastasi e che erano controllate da una ultrasonografia operativa. Queste tecniche si dimostrarono efficaci per l'asportazione dei tumori (Korpan N., 2002).
Meccanismo d'azione della criochirurgia
La criochirurgia causa la distruzione dei tessuti e la morte cellulare tramite vari meccanismi, sia diretti che indiretti.
I danni cellulari diretti sono il risultato degli effetti fisico-chimici della formazione di ghiaccio intracellulare, della formazione di ghiaccio extracellulare e dei cambiamenti soluto-solvente, che causano la deidratazione prima e la reidratazione massiva poi, con conseguente rottura esplosiva delle cellule. Nel caso del danno diretto da raffreddamento rapido, il meccanismo d'azione è dovuto soprattutto dalla formazione di cristalli di ghiaccio all'interno del citoplasma.
I danni indiretti risultano dalla perdita dell'integrità strutturale delle cellule, così come dalle alterazioni del endotelio monostrato del lume vascolare, e dalla conseguente aggregazione piastrinica e microtrombosi disseminata dei piccoli vasi, con risultante necrosi ischemica ed ipossemia.
Durante la criochirurgia si formano, nella palla di ghiaccio attorno alla criosonda, tre aree principali di congelamento: un'area vicina alla criosonda, dove il congelamento è rapido (temperatura approssimativamente intorno ai -100°C); un'area nel mezzo della palla di ghiaccio criochirurgia; e un'area periferica della palla criochirurgica dove il congelamento avviene più lentamente. Si viene a creare così un gradiente di temperatura di 10°C ogni mm di tessuto, fino ad una temperatura da 0°C a -5°C all'esterno della palla di ghiaccio. Nella prima area, dove il congelamento è rapido, si forma ghiaccio intracellulare considerato letale per le cellule. Nell'area periferica, dove il raffreddamento avviene più lentamente, si assiste a una deidratazione cellulare con conseguente iperdistensione e trombosi vascolare. Nell'area intermedia si assiste alla distribuzione di ghiaccio intracellulare ed extracellulare. La più alta citotossicità è osservata vicino alla criosonda durante un rapido congelamento e conseguente cristallizzazione intracellulare.
La crioablazione avviene attraverso un primo ciclo di durata variabile, dipendente dal tipo di lesione da trattare, e, generalmente, il tempo di congelamento è di circa 8-20 minuti, dopo il quale si procede allo scongelamento della lesione. Il ciclo di raffreddamento viene poi ripetuto una seconda volta, con modalità analoghe, per aumentare l'efficacia del primo ciclo.
L'utilità di ripetere 2 volte il ciclo di raffreddamento e riscaldamento dipende dal fatto che il danno da freddo è di tipo statistico, e pertanto, se a titolo di esempio ipotizziamo che abbassando la temperatura a - 20° il numero di cellule che sopravvive all'insulto termico sia di 10-5 cellule, e che ripetendo ulteriormente il procedimento di raffreddamento si osserverà che la sopravvivenza delle cellule rimaste è di 10-10 cellule con conseguente aumento rilevante dell'efficacia del trattamento.
Le criosonde vengono poi staccate dal tessuto ancora congelato mediante un riscaldamento attivo al fine di accelerare la procedura.
Sviluppi recenti
Più recentemente, a partire dal 1997 (Seifert et al., 1998) è stato messo a punto un sistema innovativo che sfrutta l'effetto Joule Thompson relativo all'espansione e conseguente raffreddamento di gas compressi. Per motivi di costo e praticità, queste apparecchiature utilizzano il gas argon compresso al posto dell'azoto liquido, raggiungendo una temperatura di -185°C . L'argon è in grado di raffreddare più velocemente nelle fasi iniziali, ma con una sfera di ghiaccio che nei primi sistemi era più piccola se confrontata con quella di azoto. Ma recentemente, il continuo perfezionamento tecnologico ha permesso di mettere a punto apparati altrettanto efficaci di quelli precedenti ad azoto liquido, ma con una praticità d'uso molto maggiore.